Torniamo alla rancheria dove ceneremo e passeremo la notte. La famiglia che la gestisce è Wayuu, la comunità indigena più importante della Guajira. I figli, Cesar e Yelisa, hanno più o meno la nostra età e ci iniziamo subito a parlare. Sono molto curioso di sapere la loro storia. Nella veranda del ristorante ci sono due chivos, sembrano addomesticati. Nel frattempo, Juan apre una bottiglietta di Coca Cola, dentro sembra esserci un liquore fatto in caso. Il bicchiere piccolo in cui lo versa me lo conferma. Juan e Fabian, il padre della famiglia, si fanno il primo giro. “È chirrinchi, lo fanno loro. Volete provarlo?” Io passo, deciso e risoluto. Tutti lo provano, a parte i bambini, e storcono un po’ la bocca. Sembra forte. So perfettamente che è meglio se non lo provo e pure sono curioso. Fanculo, mi faccio un shot. Appena me lo servono lo mando giù. Merda, considerando la gradazione alcolica, è buonissimo. Non faccio in tempo a poggiare il bicchiere che vorrei già versarmene un altro. L’alcolizzato che bivacca nel mio cervello si è appena svegliato. Ci risiamo. Da una parte la tentazione, dall’altra la consapevolezza amara di come finirà se vi cedo. Potrei non bere, restare a guardare il gruppo che si fa qualche shot, con il rischio di invidiarli tra qualche ora, quando forse saranno brilli, oppure potrei prendere in mano la situazione e far ubriacare malamente tutti quanti, compresi i bambini e le capre che gironzolano qui intorno. Tanto lo so che è così, con l’alcol non conosco mezze misure, inutile mentirsi. Che giorno è? Non ne ho la minima idea. Il telefono dice 5 aprile 2021. Che faccio mi gioco subito la sbornia del trimestre al quinto giorno utile? Che cosa farò nei successivi 85 giorni? Questa è senza dubbio la maniera più malsana di iniziare con questo nuovo metodo delle sbronze trimestrali. Quindi sì, facciamolo. Mi impossesso della bottiglia e faccio il mio primo giro per tutti. Beviamo nello stesso bicchiere, che mi sembra sia una delle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute per prevenire la pandemia. “Allora non sei astemio?!” Mi stuzzica Fabian, al quale ho rifiutato più di una birra durante il viaggio, “no tranquilo” gli rispondo sorridendo mentre preparo subito un altro giro. A questo punto posso rilassarmi e tornare a concentrarmi sui Wayuu. Cesar è seduto al mio fianco e riprendiamo il discorso. Loro sono la popolazione indigena più numerosa di Colombia e Venezuela. Il territorio Wayuu si estende infatti anche oltre il confine colombiano, ma loro non hanno bisogno di documenti per passare da una parta all’altra, perché questa terra è la loro da ancor prima che nascessero i due stati. I Wayuu hanno una storia millenaria e sono resistiti anche ai conquistadores spagnoli. “Non siamo mai stati schiavi, con loro facevamo solo scambi, non sono mai riusciti a conquistarci”. Potente, cazzo. Ora lo stiamo ascoltando tutti quanti. Faccio un altro giro di chirrinchi. Questa comunità ha sempre lottato per la sua autonomia e per il suo territorio, resistendo alle numerose avanzate dei governi di Colombia e Venezuela. Tutto questo mi affascina terribilmente. Ora che entrambi i paesi hanno riconosciuto costituzionalmente una autonomia extralegale alla popolazione, le principali minacce, secondo Cesar, sono le multinazionali, interessate alle saline e alle miniere della Guajira. “Che rapporti avete con la politica e con il governo colombiano?” “Noi non maneggiamo politica grazie a dio”. Totale. Faccio un altro giro dopo questa perla di saggezza. La comunità Wayuu è organizzata una trentina di clan, ognuno con il proprio animale totemico. A differenza di quanto si legge in giro, la loro società non è matriarcale ma matrilineare, ovvero incentrata sul nucleo familiare della madre. La donna ricopre un ruolo importante nella politica e nella organizzazione del clan, ma a comandare è comunque l’uomo, precisamente lo zio materno. Faccio un altro giro di chirrinchi. Le giovani wayuu, al primo ciclo mestruale, iniziano un processo di preparazione al matrimonio durante il quale non escono di casa per un anno. Ora la tradizione si sta un po’ perdendo, alcune ragazze si limitano a sei o tre mesi di clausura ma rispettano comunque l’usanza. “Non può proprio uscire?” Chiede qualcuno, Cesar scuote la testa, mentre io faccio un altro giro di chirrinchi. Il matrimonio è concordato, sono i genitori dello sposo però a dover pagare una dote alla famiglia della sposa, nella maggior parte dei casi gioielli ma anche animali e contanti alle volte. È l’uomo a scegliere, può andare lui a trattare con la famiglia di lei o mandare suo zio. Allora gli chiedo “la ragazza può scegliere di non sposarsi?” “Anticamente no, adesso può succedere ma la famiglia può comunque obbligarla”. Merda. Faccio un altro giro di chirrinchi per digerire ‘sta storia. Cesar ci spiega che la loro cultura contempla la poligamia. Anche questo aspetto cattura la mia attenzione. Per me la monogamia è una grossa farsa, uno dei lasciti più ipocriti della religione cattolica. In un mondo davvero laico, come quello a cui aspiriamo, la monogamia deve essere solamente una opzione e non l’unica scelta possibile. Sto già preparando un altro giro a favore la poligamia, quando lui precisa che, in realtà, solo l’uomo può andare con altre donne durante il matrimonio e avere più moglie, mentre la donna può farlo solo se viene sciolto il vincolo. Tutto ciò mi sembra profondamente ingiusto ma ormai un altro giro ce lo facciamo uguale. Questa volta Fabian decide che è giunto il momento di iniziare suo figlio, di soli dieci anni, all’alcol e i due condividono lo shot. Il tutto sotto gli occhi, non so quanto entusiasti, della madre. Siamo già alla seconda bottiglietta e qualcuno mi dice di rallentare col chirrinchi, ma io non gli faccio caso. I wayuu hanno una loro lingua e solo uno su tre parla anche lo spagnolo, la maggioranza della popolazione non ha ricevuto nessun tipo di educazione formale. Cesar è impegnato nella formazione della sua gente e porta spesso materiale educativo alle famiglie. Faccio un altro giro di chirrinchi in suo onore. L’alcol inizia a fare effetto e buona parte del gruppo non ci sta più dietro. L’economia wayuu si basa principalmente sulla pastorizia e la produzione tessile. Cesar ci spiega che oltre alle capre allevano anche bovini, cavalli e asini. Non disdegnano la pesca, ma i prodotti tessili sono quelli che li hanno resi più famosi nel paese. Molte delle amache che si trovano in Colombia sono state prodotte nella Guajira, c’è quella classica, rigida, di stoffa e quella aperta, cucita a rete, che loro chiamano <<chinchorro>> più morbida ed elastica. Faccio un altro giro di chirrinchi. Ormai siamo rimasti solo io, Juan e Fabian a bere. Oggi il problema principale dei Wayuu è l’acqua. Dai pozzi se ne estrae sempre di meno e quella in bottiglia costa. Di conseguenza crescono la denutrizione, il tasso di mortalità infantili e le malattie dovute al consumo di acqua non potabile. Faccio un altro giro di chirrinchi. Quando arriva la cena siamo già ubriachi lerci. Ce la porta la madre di Cesar e Yelisa, la quale ci spiega le varie pietanze che mette a tavola. Io ormai sono decollato. L’unica cosa che capisco è che la carne è di chivo. Mi giro istintivamente cercando quelli che passeggiavano qui fino a poco fa e non li vedo più. Sarà che li hanno ammazzati e cucinati così al volo? Sto talmente finito che tutto mi sembra possibile. In ogni caso faccio un altro giro di chirrinchi. Lentamente, ma inesorabilmente, mio cervello si spegne.
Mi sveglio ancora ubriaco, per giunta con strane sensazioni. Mi sento tipo immobilizzato, come se mi avessero legato. Appena apro gli occhi, la luce del giorno mi acceca e riesco appena ad intravedere le mie gambe avvolte in una roba colorata che si stringe fino a diventare una corda che sale verso il cielo. Vacca troia, sono all’aperto. Ma che cazzo sta succedendo? Ahhh ok, sono su un’amaca. Sono avvolto nel chinchorro come una larva. Me la rido come un ebete ubriaco che si è appena svegliato. Mi do uno sguardo intorno, ci sono altre amache ma sono tutte libere, sento solo delle voci basse in lontananza. Ho un mal di testa brutale. Non so se me la sento di scendere da ‘sto coso, per come sono messo potrei anche cappottarmi.
Arrivo al ristorante ancora in pigiama, sono già quasi tutti seduti a fare colazione. Ho dei vaghi ricordi di ieri sera, potrei aver fatto o detto qualsiasi cosa, meglio tenere un profilo basso. I colombiani sono incredibili, anche dopo sbronze colossali, si svegliano comunque all’alba e fanno comunque colazione con uova, fagioli, pancetta e altre porcherie fritte. Sto male solo a vederle ‘ste robe. Do due morsi all’arepa, ma capisco subito che il mio stomaco non è in condizioni. Meglio bere un po’ d’acqua. Inizia a tornarmi in mente qualche immagine di ieri sera. Primo flash: io che entro in bagno, tento invano di raggiungere il gabinetto e vomito praticamente ovunque. Chissà se qualcuno se n’è accorto, nel dubbio faccio finta di niente. Siamo tutti un po’ scombussolati, tranne Fabian, che ride e scherza mentre mangia come se niente fosse. Ha più di cinquant’anni il figlio di puttana e guardalo come sta, impeccabile sembrerebbe. Io non ne ho neanche trenta ed eccomi qua, inerme, floscio come un preservativo usato.
Il tour è finito, si riparte verso Riohacha, ci aspettano otto ore di strada di merda, con i postumi della sbornia. Porco zio non ci avevo ripensato ieri sera.
Passo tre ore a maledirmi per aver ceduto alla tentazione dell’alcol, con la mano fissa sul comando del finestrino qualora dovessi vomitare di nuovo. In macchina nessuno dice una parola, Juan ha optato per salsa e vallenato oggi, mentre Fabian al suo fianco sembra essersi addormentato. Alla prima sosta scendo nauseato. Davanti a me centinaia di cactus. Non ho mai vomitato su un cactus, potrebbe essere arrivato il momento. Ci penso su, mentre gli altri rimangono in macchina. No, posso farcela. Risaliamo in macchina e dopo altre tre ore ci fermiamo a Uribia per pranzo. Mi sento un po’ meglio, forse l’ho scampata. Fabian invece scende dalla macchina e inizia a vomitare, però con todo. Ah ecco, non sono l’unico che sta a pezzi. Mi siedo a capotavola, di mangiare non se ne parla, sorseggio solamente il mio bicchiere d’acqua e mi godo la scena. Alla mia sinistra, i due figli e la moglie di Fabian mangiano serenamente, mentre dall’altro lato lui è accartocciato su sé stesso, inerme, con la faccia spiaccicata sulla tovaglia. Stupendo.
“Eravamo venuti in vacanza, non per ubriacarci” lo rimprovera la moglie mentre risaliamo in macchina. Per Fabian è facile ignorarla, non parla ormai da cinque ore. E non lo fa neanche un’oretta dopo, quando gli basta un cenno per far capire a Juan che deve fermarsi. Altro giro di sbratto e si riparte.