Mi sveglio con un leggero post sbornia. Cazzo, non sono neanche le nove. Ancora non mi sono abituato al fuso orario. Inutile provare a riaddormentarmi. Troppa luce e troppo calore. Mi sciacquo la faccia. Neanche tre giorni e il salone fa già schifo. Però la casa mi piace. Il proprietario è un personaggio. Surfista, fattone, con i capelli lunghi. Ci ha spiegato che lui normalmente vive qui, ma per il carnevale ha deciso di affittarla per tirar su un po’ di soldi e che non ha recensioni perché siamo la sua seconda prenotazione. E noi che ci siamo fatti i film, per mesi, su ‘sta storia…
Nel salone c’è un’amaca davanti alla finestra che dà su una montagna di sola vegetazione. Solo sul crinale si intravedono le ultime case di una favela che si sviluppa sull’altro versante. Mi ci stendo, in attesa che i ragazzi si sveglino. In questi primi giorni abbiamo esplorato parecchio. Da Copacabana siamo arrivati a Ipanema, dove la spiaggia sembra più tranquilla e l’acqua più pulita. Le onde però non cambiano. Devastanti. Mai prese botte così forti dentro l’acqua. L’Oceano Atlantico non è il Mar Mediterraneo. Lezione numero due.
Camminando per le strade del centro invece, Rio mi è sembrata tanto affascinante quanto ingannatrice. Si mostra piena di colori, così vivace e variopinta che potrebbe sembrare davvero toda joia toda beleza. Ma in realtà la disuguaglianza sociale la divide inesorabilmente come fosse una scacchiera, lasciando spazio solo a due tonalità. Bianco o nero. Ricco o povero. Da un lato della strada decine di indigenti, alcuni seduti, altri abbandonati a sé stessi con la faccia sul marciapiede. Roba che non sai neanche se sono ancora vivi. Mentre dall’altro lato gruppi di colleghi in giacca e cravatta camminano a passo svelto, entrando e uscendo dagli uffici di importanti multinazionali. Rio ti delude e poi ti innamora di nuovo in un attimo. Quando la vedi dalla cima del Corcovado. Qui, da quasi un secolo, un Cristo di trenta metri si gode una vista impressionante. A mio avviso la più suggestiva del mondo. A sinistra la città, della quale non si vede la fine. Di fronte Botafogo, il Pão de Açucar, l’oceano. Continuando verso destra Copacabana, Ipanema e Leblon. Con la selva e le altre montagne alle spalle.

Abbiamo girato parecchio, approfittando della calma prima della tempesta. Già perché oggi inizia il carnevale. E pure questi due mica si alzano. Tra Ale e Donk non so chi è più lento. Scendo a farmi una passeggiata. Sul marciapiede ci sono molte meno cucaracha di ieri notte. Ottimo. La casa di cambio sotto casa è chiusa. Un barbiere canta e ride mentre taglia i capelli a una signora. Sembra gay e felice con il suo capello biondo tinto. Qui in molti si stanno colorando i capelli per il carnevale. L’unica volta che mi sono tinto avevo quattordici anni, a Riccione, con Nicco. Festeggiammo la vittoria del mondiale con i capelli lunghi e biondi. Robe da matti. Adesso ne ho quasi il doppio di anni. Ma sai che c’è? Non me frega un cazzo. Facciamolo. Non so il portoghese ma mi faccio capire a gesti. Dopo più di un’ora torno nell’appartamento. I ragazzi sono svegli e scoppiano a ridere quando mi vedono. “No!” “Assurdo!”. È ufficialmente iniziato il nostro carnevale.
Il primo bloco è a Santa Teresa, il quartiere bohemien di Rio de Janeiro. Dagli Arcos da Lapa, il barrio si inerpica su per la collina, storicamente abitata da artisti e migranti europei che ne hanno influenzato visibilmente lo stile architettonico. Difatti, mentre saliamo, sembra di camminare nel centro storico di Lisbona piuttosto che a Rio. Appena arriviamo ci rendiamo subito conto. È una locura. Un fiume di gente in festa. Uomini, donne, trans, vecchi e bambini cantano e ballano lungo la via che attraversa il barrio. La maggior parte sono in maschera. Qualcuno sui trampoli. Altri arrampicati sui segnali stradali, sulle recinsioni delle case e altri posti improbabili. Sui balconi delle case le persone danzano e tirano acqua di sotto per rinfrescarci. È un trionfo di colori. Fa un caldo pazzesco e non si capisce un cazzo. Neanche dove si sta muovendo la folla. A qualche decina di metri da noi si sentono i tamburi di un’orchestra che probabilmente segue il carro principale. Dietro di noi invece una tromba segue un altro ritmo. Altri brasiliani ancora cantano in coro a squarciagola. Gli ambulanti muovono a stento i loro carretti, con annesso ombrellone, dispensando alcol, bevande fresche e ghiaccio per rinfrescarsi. Ora siamo completamente dentro al corteo e quasi non c’è spazio per muoversi. È il caos. È il delirio. Esattamente quello cercavo in questo momento della mia vita dopo due anni buttati in ufficio. La musica, la follia e l’allegria dei brasiliani ci trasportano. Ci muoviamo a singhiozzo. Si cammina qualche metro poi ci si ferma di nuovo. Balliamo. Saltiamo. Ci abbracciamo. Ci perdiamo. Ci ritroviamo. Ci amiamo.
Altro momento di stallo. Siamo di nuovo tutti appiccicati. Incrocio lo sguardo della ragazza di fronte a me. Lei mi sorride, io ricambio. “Vuoi baciarmi?” Mi chiede. Accetto. Dopo una decina di secondi ci stacchiamo e sempre lei mi chiede “vuoi baciare anche il mio fidanzato?” Accennando all’uomo, a pochi centimetri da noi, che chiaramente non può non aver visto tutta la scena. E pure non è incazzato. Tutt’altro. Anche lui sorride. Come noi. Come tutti qui. Li guardo incredulo, come se fossero venuti da un altro pianeta. Rifiuto l’invito ma con immensa ammirazione. Se tutte le coppie se la vivessero così sarebbe un mondo migliore. Lezione di vita numero tre.
